“Chiese dismesse” – Articolo sull’inserto di Avvenire “Bologna sette”

“il moderatore della zona pastorale 50 Don Giulio Gallerani ha invitato i componenti dei Consigli parrocchiali degli affari economici delle singole parrocchie della vallata a partecipare a questo importante evento per riflettere sulla possibilità di recuperare le chiese le opere parrocchiali dismesse per le comunità dei territori”

Qui l’articolo di Avvenire:

Chiese dismesse, recuperarle per le comunità

DI JOHNNY FARABEGOLI *

Il tema della dismissione dei luoghi di culto, di cui si parlerà nel prossimo Seminario internazionale del prossimo 8 e 9 maggio proposto dal Centro Studi per l’Architettura Sacra della Fondazione Lercaro, è stato negli ultimi anni oggetto di diversi convegni e svariate pubblicazioni che hanno cercato di far luce, da un punto di vista interdisciplinare, sulla portata di questo complesso fenomeno in continua espansione. Non mancano, sicuramente, casi virtuosi, in cui si è giunti a soluzioni di particolare interesse, ma molto spesso episodiche, ossia pensate in un’ottica mirata al solo perimetro interno del caso specifico.

Di fatto, chi si trova a confrontarsi quotidianamente con questa problematica, con riferimento alle singole diocesi, non sempre dispone di strumenti metodologici o strategie operative che suggeriscano modalità d’indagine e intervento sistematiche.

Molto spesso si procede per casi singoli, non di rado connotati da una condizione di drammatica urgenza – come la necessità di mettere in sicurezza immobili in condizioni particolarmente critiche – e che spesso si risolvono, purtroppo, con l’inevitabile chiusura degli stessi. Di fatto, proprio la chiusura diventa spesso l’extrema ratio operativa, conseguente a una decisione «progettuale» disattesa e che, non di rado, comporta, per le gravi incombenze gestionali, anche l’attivazione di processi di alienazione. In realtà, il problema della dismissione non è un processo che investe esclusivamente i luoghi di culto, ma tocca più ambiti tipologici. Basterebbe citare i numerosi casi di edifici industriali, come pure i grandi «contenitori» lineari quali le colonie marine.

Gli edifici di culto presentano però una duplice particolarità rispetto ad altre tipologie architettoniche: in primo luogo, con particolare

riferimento alle proprietà delle singole diocesi, si configurano quali veri e propri spazi pubblici limitatamente agli orari di apertura; in secondo luogo, pur nella loro funzionalità prevalentemente liturgica – ma non vanno dimenticati poi tutti gli spazi annessi ai complessi ecclesiali -, risultano custodi di una molteplicità di valenze identitarie immateriali, il vero «genius loci» fondativo, di natura teologica, simbolica, sapienziale, più in generale spirituale, ma anche civile non riconducibili a mere categorie funzionali o «mercificabili ». Si tratta, quindi, di spazi di senso, d’incontro e di rinnovata speranza per le nostre comunità, sempre più soffocate all’interno di ambiti sociali contraddistinti da una spiccata conflittualità e da un utilitarismo edonistico. Ecco quindi che l’orizzonte operativo non dovrebbe prospettare solo uno sguardo meramente e forzatamente conservativo, ma spingersi a sollecitare processi di valorizzazione più ampi, con il coinvolgimento delle stesse comunità; se esse non sono le prime a riconoscere in un determinato bene il valore intrinseco di «patrimonio di comunità», difficilmente questo potrà tornare a essere «pietra viva» di uno spazio in grado di offrire rinnovati orizzonti di senso.

* responsabile Ufficio Beni culturali diocesi di Rimini