Un inizio che parte dalla fine
Con la prima domenica di Avvento la Chiesa inizia un nuovo anno liturgico, e lo fa in modo apparentemente insolito. Il Vangelo non ci propone un’anticipazione della nascita di Gesù, ma ci porta invece verso la fine: siamo nel capitolo 24 di Matteo, dove Gesù, sul Monte degli Ulivi, pronuncia il suo grande discorso escatologico.
Parla del futuro crollo del Tempio di Gerusalemme (evento realmente accaduto nel 70 d.C.), delle difficoltà che la comunità affronterà nella storia e del suo ritorno glorioso alla fine dei tempi. È come se la liturgia ci dicesse: per capire dove andare, dobbiamo guardare alla meta. Inizia così un tempo che prepara il Natale, ma lo fa tenendo lo sguardo alto, verso il compimento ultimo della storia. Insomma, si parte dalla fine per capire l’inizio.
Vigilare: il verbo che guida la “fede dell’ora incerta”
Gesù, nel suo insegnamento, non ci chiede di conoscere l’ora esatta della sua venuta. Non offre cronologie o calcoli, ma un atteggiamento: «Vegliate!». È questo l’invito che risuona con forza all’inizio dell’Avvento. Vegliare non significa semplicemente restare svegli di notte, ma vivere il presente con cuore desto, con una fede capace di abitare l’incertezza dell’ora. È la fede dell’ora incerta, quella che non ha bisogno di certezze visibili per rimanere salda, ma si nutre di fiducia, di attesa, di ascolto.
Vigilare è vivere con consapevolezza ogni giorno, coltivando la fede nella quotidianità, senza lasciarsi assorbire dall’automatismo del tempo che passa. È mantenere vivo il desiderio, pronti a cogliere i segni della presenza di Dio nei giorni comuni, senza rimandare le scelte essenziali.
Il paragone con i giorni di Noè è illuminante: la vita scorreva apparentemente normale – «mangiavano, bevevano, prendevano moglie e marito» – ma tutto avveniva in una distrazione collettiva, come se nulla potesse cambiare. Il problema non è la normalità, ma la superficialità. Non è il vivere, ma il vivere senza attenzione, senza uno sguardo interiore, senza spirito. Il vero pericolo non è il “diluvio”, ma l’indifferenza che ci rende ciechi al passaggio del Signore.
Una speranza che guarda avanti, radicata nel passato
Nel tempo di Avvento la liturgia ci educa a uno sguardo duplice: uno rivolto al futuro, l’altro ancorato alla memoria. Come ha detto Benedetto XVI: «In Avvento il popolo cristiano rivive un duplice movimento dello spirito: da una parte, alza lo sguardo verso la meta finale del suo pellegrinare nella storia, che è il ritorno glorioso del Signore Gesù; dall’altra, ricordandone con emozione la nascita a Betlemme, si china dinanzi al Presepe. La speranza dei cristiani è rivolta al futuro, ma resta sempre ben radicata in un evento del passato» (Angelus, 27 novembre 2005).
Questo è il cuore dell’Avvento: attendere Cristo, non solo come celebrazione annuale, ma come atteggiamento spirituale permanente. Lui è già venuto nella carne, viene ogni giorno nei sacramenti e nella vita, e verrà nella gloria. La nostra fede si nutre di questa triplice venuta.
Non avere paura della fine: la fede prepara l’incontro
Il Vangelo ci invita a non avere paura. La venuta del Figlio dell’uomo sarà improvvisa, ma non è un evento da temere per chi vive nella fede. Non si tratta di spaventarsi o di cadere nell’ansia apocalittica, ma di vivere bene il presente, come chi sa che ogni istante può diventare occasione d’incontro con Dio.
La storia va verso un compimento, e non verso il caos. La fede non ci fa fuggire dal mondo, ma ci insegna ad abitarlo in attesa. L’Avvento non è un tempo di evasione, ma di risveglio: un invito a non lasciarsi addormentare da una vita superficiale, ma a rimanere svegli, attenti, vigilanti. Il Signore viene. E non dobbiamo temere, ma preparare la nostra casa interiore ad accoglierlo.

