Nel Vangelo di questa domenica possiamo riconoscere una piccola malattia della vita spirituale: la superbia spirituale.
È quella voce interiore che ci fa sentire migliori degli altri, non perché abbiamo lottato per essere giusti, ma semplicemente perché nella vita ci è sempre andata bene.
Magari non abbiamo mai incontrato occasioni particolari di caduta o non abbiamo mai commesso grandi errori. Proprio per questo, invece di riconoscere che tutto è dono, tutto è grazia, tutto è misericordia, iniziamo a credere che la nostra bravura sia merito nostro, una conferma che noi sì, siamo giusti.
Da questa illusione nasce il disprezzo verso gli altri.
Ci sentiamo autorizzati a guardarli dall’alto verso il basso, come il fariseo nella parabola, che ringrazia Dio non per la sua misericordia, ma per il fatto di non essere come gli altri uomini: ladri, ingiusti, adulteri.
La sua preghiera non è un incontro con Dio, ma uno specchio in cui contempla compiaciuto se stesso.
Il pubblicano invece ci insegna la verità dell’umiltà. Sa di essere un peccatore, non si giustifica, non si paragona a nessuno, ma si affida alla misericordia di Dio. Non si appoggia ai suoi meriti, ma al cuore di Dio. Questo è l’atteggiamento che davvero apre alla grazia.
La parabola ci ricorda che il criterio della giustizia davanti a Dio non è ciò che appariamo o facciamo per abitudine, ma la sincerità del cuore che sa dire: “Abbi pietà di me, peccatore.” Forse nella vita ci è andata bene, forse non abbiamo mai fatto grandi errori, ma questo non ci rende migliori: ci rende soltanto più responsabili nel vivere con gratitudine, senza disprezzare chi non ha avuto le nostre stesse occasioni fortunate.

